Muccioli mi sequestrò ma non mi sarei mai salvato senza il suo coraggio


Fabio Cantelli Anibaldi, scrittore e filosofo, vice presidente al Gruppo Abele, è il protagonista più intenso della docu- serie “Sanpa”. Racconta i suoi dieci anni a San Patrignano con la gratitudine del sopravvissuto e la malinconia di chi ha dovuto imparare a vivere, dopo quegli anni accanto a Vincenzo Muccioli.

Come comincia il tuo percorso verso San Patrignano?

Entro 15 ottobre del 1983 a 21 anni, dopo tre anni duri di tossicodipendenza. Credo di essere stato l’unico tossico ad aver iniziato subito con l’eroina in vena. Nell’ 82 iniziai con i furti e finii a San Vittore. Un magistrato mi disse: se fai un percorso di recupero ti faccio uscire.

E andasti da Muccioli?

No, a Le Patriarche in Francia, ma scappai. Mio padre adottivo, Alfio Cantelli, era un critico cinematografico del Giornale di Montanelli e quindi Montanelli chiese a Gian Marco Moratti di incontrarmi.

Accettò?

Sì, andai nella sede della Saras, la società petrolifera dei Moratti a Piazza San Babila. Non avevo mai incontrato un miliardario, mi trovai davanti questo uomo cordiale, gli raccontai il mio rapporto con l’eroina.

Cosa ti diceva?

Mi chiese: “Ma tu, i soldi per la roba, come li tiri su?”. Il fatto che avesse utilizzato il termine “roba” mi fece capire che conosceva il nostro gergo. Mi entusiasmai.

Che hai risposto?

Che proprio lì sotto in galleria c’era una boutique dove avevo rubato più volte. Gli mostrai il gesto con cui mi mettevo il giubbotto sulla spalla quando entravo nei negozi per rubare. Lui era basito, ma ci siamo piaciuti.

Perché secondo te?

Credo ci considerassimo entrambi degli outsider. Io non mi sono mai ritenuto lo stereotipo del tossico, ero colto, amavo i libri, lui forse si sentiva una mosca bianca nel mondo dei miliardari.

Cioè?

Gian Marco, credo, viveva con un profondo senso di colpa il fatto di essere così spropositatamente ricco. Voleva restituire qualcosa. Sulla fascinazione che lui e Letizia provavano per Muccioli la mia idea è che fossero ammaliati dall’esuberanza vitale di Vincenzo. E’ l’animale dionisiaco che ti affascina, specie se non sei del tutto dentro la vita come spesso capita ai ricchi.

Il primo incontro con Muccioli?

Aveva degli occhi che trapassavano l’aria. Lui mi fece una radiografia e disse: “Se vieni, devi stare qui almeno due anni. E poi io ti farò studiare”. Capì cosa mi interessava. Entrai lì dopo due mesi.

Come andò?

Tra l’’83 e l’’84 scappai 6 volte. Mia madre mi tese una trappola d’accordo con Muccioli. Mi chiese di andare a casa a Milano, io arrivai e mi trovai due marcantoni che di notte mi portarono a San Patrignano.

Un sequestro.

Sì. Mi misero in una casetta di cemento di tre metri per tre e mi chiusero dentro.

Quanto sei rimasto?

Diciotto giorni con la doppia crisi di astinenza da eroina e cocaina. Tentai il suicidio. Non c’erano oggetti quindi sbattevo la testa contro la porta di ferro. Mi resi conto che il mio corpo facevo resistenza, non volevo morire soffrendo, avevo sofferto già troppo nell’anima. Se ci fosse stata una finestra mi sarei buttato.

Ti sei arreso?

Il quindicesimo giorno l’angoscia fu tale che mi abbandonai disteso sul pagliericcio e nella disperazione mi pervase un senso di pace. Mi guardai dal di fuori per la prima volta e scorsi un esserino di 50 chili in mutande. Provai pena per me stesso.

La terapia lì dentro era Muccioli, quello è chiaro. Oltre a lui, cosa aiutava a liberarsi dalle sostanze?

Intanto non si usano sostanze, ma si viene usati delle sostanze, si viene “assunti dalle droghe”. E poi la droga è un mondo, non una cosa. Per liberartene devi costruirti un mondo alternativo, un presente. L’intuizione di Muccioli era: devono imparare un lavoro. Capiva la vocazione professionale, di me capì che dovevano studiare.

Un momento felice.

Il Natale del 1984. Ero ancora inquieto. Arrivai in ritardo nella sala mensa per la cena natalizia, c’erano le ragazze vestite da angeli, un regalo per ogni ragazzo della comunità, quando entrai mi sentii investito da un’onda di affetto: Era un assembramento di naufraghi che si abbracciavano, felici di aver trovato la terraferma. Cominciai a piangere in maniera incontrollata. In quel momento ho capito cosa fosse una comunità.

Quando hai capito che non lo era più?

Quando venni a sapere che ero sieropositivo da Vincenzo dopo che me lo aveva nascosto per anni. E dopo l’omicidio di Maranzano, conoscevo troppo bene Vincenzo per non sapere che non era possibile che non l’avesse saputo subito.

Muccioli era a suo modo un “dipendente”?

Era governato dai suoi impulsi. Quando era a tavola e vedeva le piadine ne mangiava dieci. Era governato dal potere, dall’ambizione. Erano tutti ai suoi piedi.

Un aneddoto su Vincenzo e un politico?

In comunità venne Giorgio Almirante, poi mandò una lettera a Muccioli che iniziava così: “Ingegnere!”. Muccioli non era neppure laureato. Almirante tornò, continuava a chiamarlo ingegnere. Muccioli spiegò di non esserlo e Almirante rispose: “Lei è ingegnere: costruisce uomini!”. Ridemmo molto.

Era mai in soggezione con qualcuno?

No. Anche con Craxi aveva un rapporto paritario. Stimava molto Pannella.

Su quale terreno si incontravano?

Forse sul narcisismo.

San Patrignano è stato anche il luogo della macelleria, della violenza.

Ho capito cosa era successo quando ho letto “I sommersi e i salvati” di Primo Levi, con l’ ebreo che i nazisti mettono a capo di un ghetto e che diventa un monarca terribile. Muccioli mise lì persone senza equilibro che assieme ai loro sgherri furono usate per esercitare il potere in una comunità cresciuta troppo.

E quando il potere vacilla, Muccioli si eclissa.

L’ho conosciuto come un capitano Achab e alla fine l’ho visto trasfigurarsi in Benito Cereno costretto a fingere davanti al mondo di essere ancora capitano di una nave che sente ormai soltanto come una minaccia. Non voleva essere ricordato come un “patacca”, splendida parola con cui a Rimini si designano i chiacchieroni vanagloriosi.

E poi ci fu la malattia.

Non ci fu detto mai nulla. Sparì per mesi, leggemmo che stava male nell’editoriale di Biagi. Forse avevano già deciso che il successore sarebbe stato il figlio, temevano che noi collaboratori fidati avremmo espresso delle perplessità.

Perché?

Perchè Andrea ha le sue qualità ma il carisma del padre non si inventa.

Ti saresti salvato senza San Patrignano?

So che i cultori del diritto inorridiranno ma se non avessi trovato una persona col coraggio di commettere un sequestro, non penso sarei vivo. Poi certo, la sopravvivenza non è vita. Il senso della vita non te lo dà San Patrignano.

Ci si salva sempre da soli.

Cosa avresti detto al Muccioli che stava morendo?

Che avrebbe dovuto fidarsi di più di noi. Mi fa orrore la macchina burocratica che SanPa era diventata e questo immenso show-room che è oggi.

Sei tornato?

Nel 2000. Non era più il luogo che avevo conosciuto. Tutto pettinato, le aiuole. Non possedeva più l’anima sporca della comunità.

Perché “Sanpa” sta avendo questo successo?

Perché è un lavoro straordinario. Perché racconta la complessità di quello che è stato. E’ come una tragedia di Shakespeare: c’è l’amore, c’è il potere, la morte, la vendetta, tutto l’umano. E’ un meraviglioso specchio per riconoscersi.

Intervista di Selvaggia Lucarelli sul Fatto

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