Chi di noi sin da piccoli non ha avuto un piano di vita? Ognuno ha scritto per sé la storia della propria vita. Cominciamo a scriverla alla nascita. E quando iniziamo a fare le torri con le costruzione, le O con il bicchiere, pettinare le bambole e giocare a fare il dottore decidiamo le parti essenziali della trama. Arriviamo, ancor prima di saper leggere e scrivere, completato la storia in tutti i dettagli principali. Quando poi ci compiano i peli sul corpo aggiorniamo il nostro copione.
Parasite come tutte le storie, ha il suo inizio e la sua fine con i suoi intrecci. Ci sono gli eroi, le eroine, i cattivi, i protagonisti e le comparse. Parasite può essere comico e tragico, mozzafiato o noiosa, fonte d’ispirazione o banale.
La sensazione che ho avuto io all’inizio del film è stata quella di immedesimarmi subito in Ki-woo per la capacità di adattamento e la propensione a preoccuparsi del resto della famiglia. Ho rivisto il mio copione di secondogenito di 6 figli. Mi è servita l’analisi transazionale per comprendere e accettare questa bellissima realtà. Al 101 (modello teorico dell’analisi transazionale, di 1-2 giornate), Alessandra Pierini ci chiese di pensare a quale personaggio reale o di fantasia eravamo affezionati da bambini…da lì è iniziata l’esplorazione del mio copione di vita.
Può darsi che ad oggi non siamo consapevoli di averne uno e questo tempo ritrovato, grazie al covid, può rappresentare l’occasione per mettersi alla ricerca del proprio copione.
Può essere questo l’atteggiamento con cui predisporsi a guardare questo bellissimo film coreano. Parasite è la verità che nessuno vuole sentirsi dire perché rivela in sostanza la propria identità. Senza voler spoilerare nulla Parasite apre tante riflessioni oltre a quella immediata della storica lotta di classe. La “puzza dei poveri” rispecchia il contesto storico che ci apprestiamo a vivere nella post pandemia. Eh già, perché faremo sempre i conti con la povertà, come ci ha ricordato Gesù nei vangeli: “i poveri li avrete sempre con voi” (Mt 26,11). Con la certezza che oggi – più che mai – il povero ci riguarda e ci deve riguardare non solo quando è vittima della crisi, ma anche quando dà fastidio, anche quando ci insulta, anche quando arriva svuotato e sfibrato da guerre incivili sulle nostre spiagge. Nella povertà non ci sono distinzioni di serie A o B, non ci sono e non possono essere chiesti alla chiesa, che fa del Vangelo il suo riferimento, o perlomeno dovrebbe.
Il povero è povero sempre: lo è quando è privo del necessario per vivere e lo è quando è privato della possibilità di vivere onestamente, se vittima del racket, per esempio o del mercato della prostituzione, della tratta, delle intimidazioni mafiose, degli usurai ecc. Ancora una volta il Vangelo ci ricorda che è più “povero” il “ricco Epulone” del “mendicante Lazzaro” (Lc 16,19-31). Un’altra scena evocativa del film. È questo lo “scandalo” da secoli e secoli che attanaglia l’umanità. L’incapacità di vivere e far sopravvivere il povero.
“Dove c’è amore, c’è profumo; altrimenti c’è lezzo di non vita, di morte. Ora, a tutto ci possiamo abituare: è questa la forza e la miseria dell’uomo. Possiamo assuefarci al cattivo odore e non sentirlo più. Siamo in grado di sopportare una vita spenta, un’esistenza senza amore, già morta (Zuppi)”
Allora basterebbe avere il coraggio di rinunciare e di rifiutare ciò che odora di morte, di tristezza, di bruttezza e credere che siamo fatti per il profumo, per la vita, per la gioia, per la bellezza. Il profumo come il bene è contagioso e ne vorresti anche tu per espanderlo e condividerlo. Questa è la gioia della vita.
«Un piano di vita che si basa su di una decisione presa durante l’infanzia, rinforzata dai genitori, giustificata dagli avvenimenti successivi, e che culmina in una scelta decisiva». È la definizione di E. Berne, padre dell’analisi transazionale del copione. Il copione è un piano di vita. Quel piano, che rappresenta il fulcro di di Parasite, avrebbe potuto salvare tutti se ognuno fosse stato consapevole che nessuno si salva da solo. Proprio come l’esperienza che stiamo vivendo in questi giorni di pandemia.
“Il copione è diretto verso un tornaconto: il piano di vita «culmina in una scelta decisiva». Quando il bambino piccolo scrive la propria vita, ne scrive come parte integrale anche la scena finale. Tutte le altre parti del copione, dalla scena di apertura in poi, sono allora programmate per portare a questa scena finale. Nel linguaggio tecnico della teoria del copione, la scena finale è chiamata il tornaconto del copione”.
La teoria dice che quando da adulti noi mettiamo in scena il nostro copione, senza saperlo scegliamo dei comportamenti che ci facciano avvicinare al tornaconto del nostro copione.
Il copione è decisionale: Berne definisce il copione «un piano di vita che si basa su una decisione presa durante l’infanzia». In altre parole il bambino decide quale sarà il suo piano di vita. Ne segue che anche quando bambini diversi vengono allevati nello stesso ambiente essi possono decidere dei piani di vita del tutto diversi.
Fin dai primi giorni di un bambino i genitori gli inviano dei messaggi (ingiunzioni e controingiunzioni) sulla base dei quali egli forma delle conclusioni su se stesso, sugli altri e sul mondo. Questi messaggi di copione sono sia verbali sia non verbali. Costituiscono la struttura di riferimento in risposta alla quale vengono prese le principali decisioni di copione del bambino.
Un bambino è piccolo e fisicamente vulnerabile. Per lui il mondo è popolato da enormi giganti. Un rumore inaspettato può essere il segnale che la sua vita è in imminente pericolo. Incapace di parola o di un pensiero coerente egli sa solo che se mamma e papà vanno via lui morirà. Se loro si arrabbiano troppo con lui possono annichilirlo.
Il bambino piccolo, inoltre, non ha la comprensione adulta del tempo. Se sente fame o freddo e mamma non accorre, forse vuol dire che mamma non verrà mai e questo significa la morte. Oppure potrebbe significare una cosa ancora peggiore della morte: essere abbandonato per sempre. Immaginiamo che, quando il bambino ha due o tre anni, nasca un fratellino o una sorellina. Il bambino, che ora è più grande, sa che probabilmente non morirà per questo. Ma tutta l’attenzione della mamma sembra essere presa dal nuovo arrivato. Forse non c’è abbastanza amore per tutti? Il piccolo lo assorbirà tutto? Ora la minaccia è la perdita dell’amore della mamma.
La sua risposta è allora data da alcune strategie di sopravvivenza che gli permettano di vedere esauditi nel modo migliore i suoi bisogni.
L’esperienza emozionale del bambino è di rabbia, di totale abbandono, di terrore e di estasi. Egli prende le sue prime decisioni in risposta a queste intense sensazioni. Così non è sorprendente che le decisioni prese spesso siano estreme.
Facciamo alcuni esempi: immaginiamo che egli sia stato ricoverato in ospedale per un’operazione. Questa non è un’esperienza piacevole nemmeno per un adulto, ma per il bambino può essere un disastro terrificante. Oltre alla paura egli sente infatti con enorme tristezza che mamma non c’è e forse non tornerà mai più. Inoltre è pieno di rabbia perché lei ha permesso che questo gli succedesse.
Potrà decidere: «Queste persone vogliono uccidermi. Mamma lascia che questo succeda, dunque anche lei vuole uccidermi. Mi conviene ucciderli prima che loro uccidano me».
Ancora: supponiamo che la madre del bambino non sia coerente nel rispondere alle sue esigenze. Certe volte quando lui piange lei accorre, ma altre volte lo ignora. Il bambino non ne trae semplicemente la conclusione: «Della mamma non ci si può fidare». Può decidere «Non ci si può fidare degli altri» o forse: «Non ci si può fidare delle donne».
Una bambina di quattro o cinque anni può essere infuriata verso il padre perché non le dà più la calda attenzione che la mandava in estasi quand’era più piccola. È probabile che non decida semplicemente: «Sono infuriata con papà» ma: «Sono infuriata con gli uomini».
Il bambino può compensare questo suo senso d’impotenza immaginando di essere onnipotente o di poter fare cose magiche. Magari avverte che mamma e papà non vanno tanto d’accordo. In particolare se è figlio unico può decidere: «È colpa mia». Se i genitori litigano venendo alle mani può credere che sia suo compito proteggere un genitore dall’altro. Se il bambino avverte che è rifiutato da un genitore, può attribuire la colpa a se stesso, decidendo: «C’è qualcosa che non va in me».
I bambini piccoli hanno difficoltà a distinguere tra bisogni e fatti reali. Un bambino può pensare: «Voglio uccidere questo neonato che sta ottenendo tutte le attenzioni!». Per lui questo equivale a dire: «Io ho ucciso il nuovo arrivato». Può allora concludere: «Sono un assassino. Sono cattivo e detestabile». Nella vita adulta questa persona può avvertire un vago senso di colpa per un «crimine» mai commesso.
Infine, in una recensione di Sabrina Crivelli leggevo che i giochi di luci e ombre, i dettagli sinistri, i luoghi scabri e nascosti, tutto concorre ad accrescere la sensazione di angoscia. Il regista riesce a proiettare le molte ombre che aleggiano sulle nostre certezze, sulle nostre piccole e sicure quotidianità. L’assurdo, l’imprevedibile estraneità emergono dal sottosuolo a mettere in discussione il piccolo microcosmo in cui i Park e i Kim – e non solo – si incontrano e scontrano destabilizzando ogni rapporto, svelando il peggio di ognuno e portando ad estreme conseguenze (che si concretizzano nel finale ad effetto).
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