Per “i pazzi di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia”. Per gli outsider, gli artisti, le anime inquiete e sensibili, i mistici, per coloro che non sanno chiedere aiuto, avvelenati da se stessi, ma cercano ogni giorno altri destini, conforto e salvezza. Nelle madri, in tutte le madri. E la possibilità di addormentarsi, sperare di dormire, almeno una notte, senza paura.
Tutto chiede salvezza, la nuova serie su Netflix non appartiene ad alcuna categoria, se non quella della poesia. È una serie che ispira coraggio e amore, fa sorridere, piangere e pregare per i nostri vivi e i nostri morti. Per quelli che amiamo e per quelli che ancora avremo da incontrare lungo il tracciato dell’esistenza.
C’è il desiderio di gioia e di vivere e il bisogno di infinito che pulsano più forti che mai, dentro e fuori da quella stanza d’ospedale.
“I miei fratelli”, reciterà Daniele, “Fratelli offerti dalla vita. Indifesi di fronte alla propria condizione di esposti alle intemperie, uomini nudi abbracciati alla vita schiacciati da un male ricevuto in dono”.
La poesia– sia nel romanzo che nella bellissima serie Netflix – è anche questa: la sensazione disumana, incompresa di affogare nella propria mente. Dall’altra parte, la capacità di lanciare lo sguardo verso l’orizzonte, oltre gli alberi, amare il tramonto di un sole che spegne un’altra giornata coraggiosa, sulla nave dei pazzi.
Da dove nasce il dolore? Perché alcuni ne rimangono schiacciati fino a morirne? Sensi di colpa, angoscia, insonnia, rabbia, tristezza, disgusto….ma anche gioia, sorrisi, compassione, empatia, tenerezza, amorevolezza.
Una settimana che, dall’abuso di sostanze e dal farsi e fare male con incoscienti catastrofici gesti, trasforma il dolore in gioia, e la gioia in nostalgia.
È successo anche questa volta come in Sanpa, che mi sono infognato, e l’ho vista tutta d’un fiato. Senza voler spoilerare la fine della serie, che diventa sempre più intensa episodio dopo episodio, giorno dopo giorno, arriviamo al sabato. Giorno di dimissioni, di diagnosi e prescrizioni per qualcuno, di gesti estremi e dolore fisico per altri. Dolori alle ossa, dolori nel cuore.
Sono 7 giorni lunghi come anni per Daniele perché il dolore crea un peso faticoso da portare. Il dolore si espande e si mischia a quello dell’altro. All’inizio Federico, un triste ragazzo dal viso dolce odia tutto ciò che gli sta intorno. Questi matti devono rimanergli lontani. Lui non è come loro, anzi ne prova anche disgusto. Piano piano però nell’aspetto scheletrico di Madonnina che urla e si dispera perché ha perso l’anima, Daniele vive la compassione.
A differenza del libro, ambientato negli anni ’90, per Netflix si è decisa la trasposizione nel nostro tempo contemporaneo. Ci sono le discoteche, Instagram e i colpi di coda nella vita di un’influencer. È il caso di Nina (Fotini Peluso) la ragazza famosa in cui Daniele si imbatte nei 7 giorni di ricovero forzato. Ci sono i ragazzi e le ragazze che popolano i rave party e che il nostro governo vuole criminalizzare senza voler ascoltare il loro grido disperato di bisogni e desideri profondi che animano questi raduni.
“Mi sembra così evidente che – come i giovani degli anni ’80 e ’90 cercavano nelle droghe pesanti una via di fuga da un modello di vita borghese percepito come “alienante” – così i giovani di oggi cercano in questi raduni estemporanei, organizzati per vie informali, la Comunità Perduta: un sentimento del convivere e del condividere di cui nella società del profitto, del consumo e delle guerre non è rimasta traccia” (d.L. Ciotti).
Ecco, mi piace pensare ai rave, che stanno occupando le pagine mediatiche di questi giorni, come una barca di pazzi che dà sempre il benvenuto a chi ha navigato tra le bufere, ha perso le persone più care, e poi se stesso.
Come si sopravvive a questo dolore che intacca l’anima e fa sentire dentro di sé ancora più forte il dolore degli altri e del mondo? Tutto chiede salvezza ma ogni cosa – basta un tocco – facilmente ferisce. Federico Cesari ha dichiarato come gigantesco fosse il compito di indossare il giovane, umano, poeta, ipersensibile che è Daniele. Indossarne la rabbia e la nostalgia, il desiderio di bellezza e l’impulso all’autodistruzione. (Valeria Cucinotta).
Depressione maggiore, bipolarismo misto, benzodiazepine, ansiolitici sono le diagnosi e le cureche i medici scrivono, le parole e le sintesi chimiche che provano a offrire per descrivere un male che Daniele – Federico Cesari riesce bene a trasmetterlo – sente e non sa cos’è. È questa la malattia? È questa la pazzia? La domanda profonda, travolgente ci catapulta dentro l’empatia di chiederci anche noi “come si fa a curare la ferocia della vita?” Come Mario, Giorgio, Gianluca, Alessandro e Madonnina, chiunque può soffrirne. Alcuni più e altri meno.
Sono loro i 5 pazzi “che piangono quando amano e ridono quando soffrono”.
Sono loro i pazzi nella stanza in cui finisce il ventenne Daniele, in una clinica romana – Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura – dove deve trascorrere 7 giorni recluso per un TSO (Trattamento Sanitario Obbligatorio).
Madonnina, chiamato così perché per tutto il tempo si rivolge straziato alla Madonna “Maria, ho perso l’anima”; Gianluca, il ragazzo che porta dentro di sé, come un sortilegio della vita, una parte bianca e una parte nera e smalta le sue unghie di mille colori; Mario, che un volto così buono non si è mai visto, elegante nel suo pigiama lungo con vestaglia – in piena estate con 35 gradi fuori – perché, senza pesanti indumenti, si sente nudo; Alessandro (Alessandro Pacioni) catatonico, inchiodato al letto, prigioniero nel suo corpo, con la mente che chissà dove sia finita… meglio pensarla spenta che accesa quando il padre ripete la routine, insabbiata dal senso di colpa, devastata dalla tragedia che gli è capitata, e viene a trovarlo, gli dà da mangiare. E gli tocca la mano immobile. Meglio pensare che la mente non ci sia e che non sia invece la malattia a imprigionare un pensiero cosciente in un corpo morto. Tutto chiede salvezza parla all’anima, la imbocca e la accarezza, svela senza retorica l’ingiustizia e l’insensatezza della vita. E poi c’è Giorgio, un omone grande, un gigante buono con la testa e il cuore di un bambino. Un bambino che non aveva niente fin quando lo hanno privato di vedere sua mamma prima che morisse.
Uno strappo brutale che si porta dietro nel tempo, che segna la sua pelle con ferite per tenerne memoria, perché “non se more così, senza salutare”.
La lingua di Tutto chiede salvezza è un italiano con cadenza romana, che ricorda certi versi di Pasolini, che arriva forte, dritta al cuore. È una lingua fisica che fa luccicare gli occhi di purezza, pianto e pietà.
Mencarelli la chiama Salvezza; cerca, indaga e trova questa parola per provare a dare un senso all’insondabile tormento, il tormento di chi non sa godere neanche della felicità, anche quando la felicità esiste ed è così forte che potrebbe accendere i lampioni di una lunga strada. Eppure felici non si riesce a essere.
Tutto chiede salvezza è un atto lirico, straordinario, una preghiera struggente alla vita per le anime più sensibili.
Ai lottatori, ai pazzi. Si apre con questa dedica e invocazione Tutto chiede salvezza….guardatela

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